La voglia di mostrarsi è pari a quella del nostro ego. Più l’ego è grande più è grande la voglia di apparire, anche a costo di sembrare stucchevoli.
Il peggior esempio di fotografia da selfie ci è data oggi da Facebook. Le centinaia di migliaia di selfie che vengono “vomitati” dai social ogni giorno, con l’aggiunta della scritta “buongiorno”, sono il classico esempio di come non si dovrebbe fare fotografia e di come non si dovrebbero torturare gli occhi degli “amici social”.

Il bisogno e la richiesta dell’approvazione altrui prende il sopravvento sul buonsenso. Il selfie racconta, o almeno dovrebbe raccontare qualcosa di interessante, ossia…
mi scatto una foto perché voglio che tra 40 anni, riguardando quella foto, possa provare le stesse emozioni che provavo mentre scattavo…
il selfie quindi dovrebbe essere un backup dei ricordi… ricordi importanti. Sulla “importanza” e sul suo significato ci si potrebbe parlare per ore, perché tra un selfie inutile e uno importante ci passa in mezzo un intero universo.

Autoscatto? no grazie!
Abbandoniamo quindi la definizione di “autoscatto” puro e semplice, e dedichiamoci a rendere unico ed importante una foto fatta a noi stessi.
Ritrarre se stessi è sempre interessante. Finalmente riusciamo a vederci come ci percepiscono gli altri. I più diranno “basta guardarsi allo specchio per capire come ci percepiscono gli altri”, ma non è così. Volete una prova? Già ne parlai ma lo ripeto volentieri.
Andate davanti allo specchio e guardatevi per dieci secondi. Poi tornate qui.
Sono sicuro che al cento per cento chiunque di voi, guardandosi allo specchio ha fatto espressioni “migliorative” del volto o ha allargato le spalle e, chi ce l’ha, ha tirato dentro la pancia. Insomma nessuno è stato sincero con se stesso davanti allo specchio. Perché?
Perché con lo specchio si ha un riscontro immediato della nostra immagine, e noi ci sforziamo inconsciamente di apparire come vorremmo essere… ma noi non siamo come appariamo allo specchio. Semplicemente il “problema” sta nel fatto che non possiamo tirare in dentro la pancia tutta la giornata… non possiamo avere espressioni facciali “particolari” al bar, in metro, alla posta o chissà dove… ci prenderebbero per pazzi.
Insomma ci sarà un motivo perché pubblichiamo il decimo selfie e ne cestiniamo nove…
il problema è che noi siamo come i nove che cestiniamo e non come il decimo che pubblichiamo…
Eppure l’escamotage dello specchio doveva servirci da lezione. I grandi fotografi del passato lo usavano spesso per le loro fotografie, vuoi perché non avevano fotocamere frontali, vuoi perché un selfie su pellicola è molto più complicato da “gestire” in quanto prima di vedere il selfie bisognava aspettare lo sviluppo della pellicola, e infine perché i selfie sia buoni sia non buoni avevano un costo. Insomma prima anche un selfie era una scienza esatta.
Analizziamone qualcuno…
Vivian Maier, sono famosi i suoi selfie. Geniali in quanto precursori in qualche modo di quello che sarebbe diventata la fotografia.



Trovo interessante la volontà di Vivian Maier di porsi all’interno della fotografia per farne parte. La composizione che include elementi di suo interesse, adesso hanno quel qualcosa in più… hanno lei stessa all’interno.
Ma era l’unica? o c’erano fotografi che in altre parti del mondo facevano le stesse cose?
Un altro “appassionato” di selfie è sicuramente Lee Friedlander. All’inizio non capivo la copertina del suo libro… due foto, una di un giovane ed una di un anziano. Poi leggendo il titolo e guardando attentamente ho capito. Tutta la sua “vita di selfie” racchiusa in un libro, dal 1958 al 2011. Strepitoso.

Ciò che mi ha colpito del libro, oltre ad essere una miniera d’oro di idee, è il fatto che in qualsiasi modo lo si voglia interpretare, è chiaro che Lee Friedlander ha dedicato tutta la sua vita a questo progetto, o sebbene non ne avesse alcuno, ha avuto la genialità di raggruppare tutti i suoi self-portrait in un unico libro che ripercorre tutta la sua vita “artistica”.


Ed in mezzo a queste due foto ci sono 53 anni di selfie. Tra cui alcuni davvero geniali come questo qui sotto.

Esserci non apparendo. Giocare con le presenze e con le ombre. Friedlander amava le (sue) ombre, ed era sovente inserirle nei suoi scatti, erano come dire… parte fondamentale della sua fotografia.
In molti diranno… “già visto, dov’è la genialità?”
La genialità sta proprio nel fatto che nel 1960, senza Internet, senza social o altro, le informazioni non giravano alla velocità odierna, e quindi è molto probabile che nessuno di questi fotografi conoscesse le foto degli altri, quindi pensare e scattare queste fotografie senza “condizionamenti” o emulazioni, le rende di fatto geniali. Oggi noi facciamo queste foto perché le abbiamo già viste e cerchiamo di emularle… loro no… loro le hanno inventate.
Come questa, sempre di Lee Friedlander mi ricorda una foto di Helmut Newton. Esserci nello specchio durante un set fotografico.

Eccola la foto di Helmut Newton, molto simile a quella di Lee Friedlander. Molto probabilmente nessuno dei due conoscesse il lavoro dell’altro. Due geni della fotografia che hanno avuto la stessa idea.

O come Robert Capa che nel 1947 si fotografò insieme a John Steinbeck, mi ricorda i selfie di Richar Avedon con Sofia Loren.

Autoscatto di Richard Avedon.

Sperimentare quindi. Sperimentare sempre. Irving Penn per esempio era uno che sperimentava. Eccolo qui sotto.

E questi esperimenti, che oggi tanto si vedono in giro, sono frutto della sua fantasia e del suo genio come sperimentare autoritratti attraverso uno specchio rotto o un volto fotografato muovendo la macchina di 180 gradi e altri. Mi è capitato di vederne centinaia di progetti come questi, ma sapere che questi sono i precursori, gli originali, nati dal genio di un fotografo senza condizionamenti, me li fanno apprezzare sicuramente di più.



Ritornando alle ombre, devo confessare che ho un debole per loro. Mi affascina l’uso dell’ombra in fotografia e ancor di più nei selfie. Più recenti sono i lavori del maestro Franco Fontana. Tra le bellissime foto del suo lavoro “Piscine” del 1987, che tratta di nudo, trovo geniale tra le altre questa che considero la sua firma a colori… ha documentato la sua presenza nel suo progetto proprio con la sua ombra. Se non è genio questo.

L’uso delle ombre è affascinante e con essa Ugo Mulas compone una fotografia magistrale. Preziosa come la foto sono anche, se non di più, le sue parole che la descrivono…

“Qualche tempo dopo l’Omaggio a Niepce ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina. Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la parete e insieme proietta la mia ombra. Da quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue due i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo autoritratto con Nini, c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si più sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente.“
Serve aggiungere altro? Spiegato meglio di cosi non credo sia possibile…
E oggi che è già stato fatto tutto, cosa ci rimane da fare? copiare?
Sebbene anche copiare (bene) sia molto difficile, oggi abbiamo ancora speranza di fare una foto eccezionale. Un selfie può diventare storia anche oggi. Con (tanta) fortuna ed un pizzico di volontà, certo. Anche un selfie può diventare storia della fotografia.
“C’è chi lo ha già definito il selfie dell’anno. E’ quello scattato dall’australiana Jessica Bloom al Qudos Bank Arena di Sydney. Protagonista d’eccezione: Bruce Springsteen. Che, per la cronaca, era anche la star della serata. “Springsteen si è avvicinato alla folla e io ho attirato la sua attenzione salendo su una sedia per fotografarlo”, spiega Jessica. Il risultato è un selfie perfetto che immortala la giovane insieme al Boss in posa per lei, come conferma anche un’altra immagine dello stesso attimo, scattata da più lontano da un altro spettatore e pubblicata su Reddit“

Di questo selfie si apprezza tutto… contesto, sguardo del Boss, gente che guarda il telefono perché indicato dal dito di Springsteen… insomma, qui c’è una preparazione minuziosa, una idea geniale che è diventato forse uno dei “selfie moderni” migliori mai scattati. L’avessi scattato io, ne sarei stato orgoglioso.
Salire sulla sedia è stato ciò che ha reso possibile catalizzare l’attenzione di Springsteen… infatti in una “marea umana”, dove tutti hanno la stessa altezza, in nessun modo il Boss avrebbe notato la ragazza. Come si evince dalla foto qui sotto, il fatto di emergere fisicamente dalla folla, ha aiutato la realizzazione dello scatto… ecco la previsualizzazione

la ragazza da questa angolazione è quasi invisibile, per un puro effetto prospettico, ma riguardando il selfie, notiamo quanto l’idea di elevarsi sia stata geniale.
Stesso cantante… ragazzina di tredici anni fa un selfie con il Boss… ma il risultato è nettamente diverso.

questa è la lampante differenza tra fortuna e previsualizzazione…
Qui Springsteen decide di fermarsi e concedere il selfie alla ragazzina, che incredula scatta (come si vede nella sequenza)… si tratta quindi di FORTUNA… nel selfie di Jessica Bloom invece è stata la ragazza a decidere foto, momento e cotesto… si tratta quindi di PREVISUALIZZAZIONE.
Il risultato è nettamente diverso come dicevo. La prima foto è una immagine che ha fatto il giro del mondo, la seconda è un immagine che rimarrà nel cuore di chi l’ha scattata, ma di sicuro non è né bella né interessante.
Quindi smettiamo di farci selfie inutili… scattare meno, scattare meglio!!!
In definitiva se proprio volete farvi un selfie al giorno, quantomeno abbiate la decenza di fingere di avere un progetto.
Christoph Rehage un progetto ce l’aveva eccome quando ha deciso di scattarsi un selfie al giorno per un anno.
Dal 9 novembre 2007, al 13 novembre 2008. Il progetto era mostrare come possa cambiare una persona in un viaggio a piedi di 4.646 km e soprattutto come sia possibile non riconoscere se stessi a distanza di un anno. Quindi il selfie, sebbene scattato ogni giorno e quindi apparentemente senza senso, inserito in un progetto più ampio diventa qualcosa di eccezionale.
Qui sotto il suo video… a voi i commenti.
Piccola nota dell’autore del video: ▶ Questo non è un video rigoroso di “1 foto al giorno”, perché volevo renderlo un po’ più vivo aggiungendo un movimento aggiuntivo. Qualche volta durante il film mi vedete girare, mentre qualcosa accade in sottofondo. Ho provato a catturare questi momenti per rendere il video più interessante.
E per ultimo, per favore abbandoniamo i filtri con le orecchie da cagnolino e altre cagate varie. La fotografia sta urlando “pietà”. Stiamo scrivendo una brutta pagina della storia della fotografia.
Come sempre offro spunti di riflessione, non impongo il mio pensiero ma al contrario mi piacerebbe essere di ispirazione a chi crede ancora nella bellezza della fotografia.
Ci si legge al prossimo post.